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Il cyberspazio digitale tra utopia e realtà

Di Alessandro Scassellati

Secondo i cantori dell’utopia digitale degli anni ’80-’90 (John Perry Barlow, Kevin Kelly, David Weinberger, Doc Searls, Dave Winer, etc.), eredi dell’ideologia libertaria californiana degli anni ’60, la rete e il cyberspazio avrebbero dovuto portare più uguaglianza, democrazia, collaborazione paritaria, intelligenza collettiva, senza che governi e grandi corporations avrebbero avuto voce in capitolo.

Poi, gradualmente, Internet è stato commercializzato e l’ideologia libertaria californiana è stata rapidamente rimpiazzata dalla visione del mondo elaborata dalla profetessa del neoliberismo, Ayn Rand, nei sui libri ed articoli, che nella sua essenza suggeriva che il denaro fosse la misura di tutte le cose e che, quindi, è bene essere egoisti, avidi, spietati e centrati su sé stessi, soprattutto negli affari, e che una mentalità di voler essere vincenti a tutti i costi è solo il prezzo da pagare per cambiare le norme della società.

Oggi, è evidente che il cyberspazio ha portato enormi benefici in termini di accesso alle informazioni ed efficienza della comunicazione, ma ha consentito anche la nascita e il consolidamento di un capitalismo digitale che si èrapidamente trasformato in quello che Shoshana Zuboff ha definito come un capitalismo della sorveglianza, un colossale panopticon foucoltiano, una efficiente macchina per la sorveglianza e la promozione dei consumi che usa i big data come carburante.

Un capitalismo che utilizza unilateralmente le esperienze umane per sfruttarle come risorsa a costo zero, trasformandole in informazioni sulle abitudini e i gusti degli utenti che possono essere usate per migliorare prodotti e servizi e per prevedere i comportamenti futuri delle persone, vendendo queste previsioni ad altre imprese (ad esempio, con gli annunci pubblicitari mirati).

Una sorta di orwelliano Big Brother legato anche agli apparati burocratici statali, militari, della sicurezza e dell’intelligence – come è stato appurato nel giugno 2013 a seguito delle rivelazioni di Edward Snowden sui programmi illegali di sorveglianza di massa (schedatura delle telefonate e di Internet) di tutta la popolazione degli Stati Uniti (e di gran parte dei Paesi anche “alleati”) realizzati dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) -, che consente un più stretto controllo sulle vite dei cittadini/consumatori e sulle attività aziendali, nonché una riorganizzazione del lavoro umano attraverso l’uso delle piattaforme e algoritmi informatici, appropriandosi dei saperi prodotti sia dai “lavoratori mentali” professionisti (giornalisti, musicisti, fotografi, videomakers, testate editoriali, etc.) sia dall’anonima intellettualità di massa attiva nella società (quella che Marx chiamava general intellect) e li trasforma in profitto.

Una immensa massa di lavoro gratuito o semi-gratuito che viene trasformata in forza di vendita agli ordini di ingegneri, matematici e di algoritmi che governano un’infrastruttura digitale mobile e flessibile, in un popolo di agenti di commercio di sé stessi che guida un taxi Uber, che recensisce un ristorante su Trip Advisor, che prenota una camera su Airbnb, Booking o Expedia, che affida la cronaca delle proprie emozioni quotidiane e mette un “mi piace” su un post di Facebook o di Twitter.

Con l’economia digitale, insieme alla distinzione politica tra padrone e dipendente (tra capitalista e forza lavoro), salta anche quella tra tempo di lavoro e tempo libero, tra lavoro e non lavoro, tra occupazione e disoccupazione.

Secondo il New York Times, più di 300 mila persone negli Stati Uniti – oltre 60 mila solo a New York, dove i taxi gialli sono solo 14 mila – dipendono solo da Uber ai fini della propria sussistenza e di queste, solo 6 mila sono dipendenti regolari. Un enorme esercito di guidatori di riserva che si è trasformato in una forza competitiva capace di spingere al ribasso la mole di lavoro ed i redditi dei tassisti tradizionali.

I conducenti della società sono trattati come appaltatori indipendenti (independent contractors) anziché dei dipendenti, per cui devono fornire le auto e pagare tutte le spese, comprese le riparazioni dei veicoli, la manutenzione, l’assicurazione e il carburante. La classificazione dei conducenti come contrattisti indipendenti consente a Uber anche di evitare di dover assicurare le tutele del lavoro come il salario minimo, gli straordinari, il risarcimento per la disoccupazione e il diritto di formare un sindacato.

Il “management algoritmico” di Uber, incluso l’importante sistema di rating a stelle alimentato dai giudizi dei clienti, impiega il rilevamento dei dati dei conducenti per generare un sistema di notifiche che “suggeriscono” ai conducenti come “migliorare“. I suggerimenti indicano ai conducenti verso quali zone andare, il sistema di rating suggerisce ai conducenti come comportarsi, mentre le notifiche li spingono a continuare a lavorare.

Se i conducenti non mantengono un rating con un alto numero di stelle, possono svegliarsi una mattina e scoprire di essete stati espulsi dalla app. L’app Uber è un’impresa privata globale “senza dipendenti” che in realtà usa il lavoro salariato mascherato come lavoro “indipendente” e “imprenditoriale” per appropriarsi di una quota maggiore del plusvalore generato dai servizi dei suoi quasi 4 milioni di conducenti nel mondo. Un fenomeno divenuto globale, se consideriamo che le città interessate dal servizio sono ormai più di 600.

Nel frattempo, Uber è divenuta una delle aziende private più valutate al mondo. Nel 2010 la società aveva un valore di 5 milioni di dollari, mentre nel febbraio 2018 era stata valutata 72 miliardi di dollari. La società ha perso 10 miliardi di dollari solo dal 2016, e mentre i passeggeri hanno pagato 79,4 miliardi di dollari per le corse, molti degli autisti attestano che riescono a malapena a garantirsi la sopravvivenza. Quindi nessuna parte del business è un’attività ad alto margine, eppure Uber ha continuato a crescere e ha incassato 8,1 miliardi di dollari da una IPO (offerta pubblica iniziale) nel 2019 sulla base di una valutazione di circa 82 miliardi di dollari, ma nel 2019 ha perso 8,5 miliardi di dollari con entrate per 4 miliardi e la valutazione di Uber è diminuita di quasi il 50% a fine anno.

Anche il maggiore concorrente di Uber, Lyft, ha perso 911 milioni di dollari nel 2018 con un fatturato di 2,16 miliardi ed è stata quotata in borsa all’inizio di aprile 2019 con una valutazione di 16 miliardi di dollari.

Uber ha tagliato costi, personale e controllate che non operavano nel trasporto passeggeri, e il CEO ha dichiarato che si aspetta la società sia redditizia entro la fine del 2020, notizia che ha fatto salire di molto il prezzo delle sue azioni, ma lo scetticismo continua a prevalere.

Numerosi grandi investitori internazionali, tra cui Goldman Sachs, Google Ventures, Sequoia Capital, Fidelity Investments, Qatar Investment Authority, Microsoft e il Fondo di investimento pubblico dell’Arabia Saudita hanno alimentato questa crescita astronomica. Questi investitori – insieme ad alcune aziende automobilistiche come Volvo e Toyota – stanno investendo in un modello di business visionario che sembra essere articolato in tre fasi. In una prima fase, Uber mira a monopolizzare il mercato del trasporto con conducente delle città attraverso una costosa battaglia per eliminare i concorrenti e modificare i regolamenti delle città, consentendo al modello di business di prosperare. In una seconda fase, potrà iniziare ad aumentare i prezzi per i consumatori grazie alla sua posizione dominante sul mercato. Nella terza fase, potrà investire i profitti risultanti nel futuro dei trasporti, ossia in veicoli autonomi (senza conducenti) e volanti. Per ora si tratta di una scommessa. Infatti, Uber continua a perdere soldi. La strategia adottata da Uber, come da altre startup legate al mondo digitale, è diventata nota, con qualche derisione, come “blitz-scaling“. Una strategia che segue il modello della “crescita accelerata prima dei profitti”: pompare, con il denaro di grandi investitori, un’azienda il più velocemente possibile verso una dimensione che domina, senza preoccuparsi del profitto, rendendo la vita difficile per i concorrenti che operano con un minimo di disciplina finanziaria. Una strategia che secondo molti analisti ha avvelenato l’ecosistema per le startup, incoraggiando i fondatori a correre eccessivi rischi con poca attenzione per la costruzione di imprese che possono durare negli alti e bassi dell’economia.

 

 

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