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La parola all'avvocato

Il passaggio dalla protezione umanitaria alla protezione speciale

Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti. Siamo al primo appuntamento con l’avvocato di Casa dei Diritti Sociali Marco Galdieri. Oggi, cerchiamo di ragionare sul tema del passaggio dalla protezione umanitaria alla protezione speciale, un tema che per noi di Casa dei Diritti Sociali è fondamentale rispetto al tipo di utenza, di nostri “consumatori”, legata soprattutto ai cittadini stranieri che arrivano in Italia cercando di trovare una qualche forma di accoglienza per poi poter costruire un loro progetto di vita. Negli ultimi anni abbiamo assistito a tutta una serie di cambiamenti continui sul piano giuridico, a seconda dei governi in carica. In passato esisteva un meccanismo che era quello della protezione umanitaria, che ufficialmente esiste ancora, ma tutta una serie di cambiamenti che hanno portato alla sostituzione della protezione umanitaria con la protezione speciale, creando tutta una serie di categorie di persone che poi possono avere accesso a questo tipo di protezione. La nostra utenza finisce per rimanere incastrata dentro questa serie di definizioni e tipologie che vengono via via definite, credo che sia importante fare un ragionamento su questo tema, su cosa è successo, su succede e quali sono le prospettive e quali sono le questioni aperte.

Marco Galdieri (MG): hai introdotto in maniera corretta questo tema della protezione umanitaria, oggi protezione speciale. È un tema su cui vale la pena provare a fare il punto. Un tema che merita dei continui approfondimenti a seguito delle continue evoluzioni legislative che ci hanno accompagnato almeno nel corso degli ultimi cinque anni e che hanno inciso in maniera profonda e importante, e continuano ad incidere.
Possiamo dire che la protezione umanitaria attualmente non esiste più come nome de juris. La protezione speciale è figlia della protezione umanitaria, ma ci arriviamo per gradi. Nel 2018, la protezione umanitaria aveva il suo fondamento nell’articolo 5, comma 6 del Testo unico immigrazione, ovvero il decreto 286 del 1998 che poneva la protezione umanitaria come una cosiddetta protezione residuale rispetto alle figure più importanti dell’asilo politico e della protezione sussidiaria. Pur avendo una sua autonomia, di fatto accadeva questo: i modi attraverso i quali si arrivava ad ottenere una protezione umanitaria erano o una richiesta diretta al questore, che molto spesso non rispondeva alla richiesta, oppure il metodo maggiormente utilizzato era quello di proporre una domanda di protezione internazionale e, laddove la commissione territoriale per il riconoscimento dello status non riconosceva i requisiti né di un asilo politico né di una protezione sussidiaria, ma ravvisava comunque delle condizioni di precarietà tali da giustificare un divieto di respingimento, veniva ordinata la questura di rilasciare un permesso di soggiorno per cosiddetta protezione umanitaria. Per questo veniva definita una protezione residuale, laddove non vi erano le condizioni per un asilo politico né una protezione sussidiaria, ma allo stesso tempo vi erano degli elementi di criticità tali da far ritenere che non fosse opportuno un rimpatrio di un soggetto proveniente da un Paese terzo. Questo è ciò che accade fino al 2018.
Nel 2018 viene abrogato questo comma 6 dell’articolo 5 con il decreto sicurezza, meglio noto come decreto Salvini, il decreto legislativo 113 della fine del 2018. Per cui viene abrogata del tutto la protezione umanitaria e viene sostituita dalla protezione speciale che non ha più la sua radice all’interno nel comma 6 dell’articolo 5 del Testo unico immigrazione, ma nell’articolo 19, comma 1 del medesimo Testo unico. L’obiettivo del decreto 113 del 2018 era quello di restringere notevolmente i casi di concessione di protezione umanitaria che nel frattempo si erano codificati anche a seguito di una giurisprudenza che diventava via via granitica, e che andava a tipizzare le casistiche meritevoli di questo tipo di tutela. Di fatto viene meno tutto questo impianto normativo e si comincia a dubitare della costituzionalità di questa abrogazione e del fatto che non ci sia più una tutela che possa in qualche modo coprire quei casi che non rientrano nella protezione internazionale, ma che comunque sia sono degni di avere una tutela maggiore. I casi previsti dall’articolo 19, comma 1 di fatto vengono ricompresi quasi sempre all’interno della protezione internazionale, per cui non ci sono più i margini precedenti che c’erano nella protezione umanitaria. Per un paio di anni si arriva a proporre una serie di ricorsi che non trovano quasi mai una soluzione per due ordini di motivi. La maggior parte dei ricorsi viene incardinata sulla previgente normativa (pre 2018), per cui le garanzie della protezione umanitaria vengono salvate anche se poi sui permessi la dicitura è quella della protezione speciale. La discendenza diretta tra le due protezioni non è mai stata negata né in sede legislativa né in sede giurisprudenziale. Le domande che invece sono state proposte successivamente e che poi sono state fatte oggetto di ricorso davanti ai tribunali perché non trovano accoglimento, in tanti casi non arrivano neanche alla conclusione perché nel frattempo entra in vigore il decreto legge 130 del 2020, cosiddetto decreto Lamorgese, che rivoluziona ancora il concetto di protezione umanitaria alias protezione speciale. Introduce un nuovo comma nell’articolo 19 del testo unico immigrazione, il comma 1.1, in cui viene fatto riferimento alla vita familiare e privata del cittadino straniero. Questa rivoluzione va non solo a sradicare quelle che erano le motivazioni che avevano portato al decreto Salvini, ma va a recepire la normativa internazionale ed in particolare l’articolo 8 CEDU.
Come ho detto la protezione umanitaria era stata tipizzata dalla giurisprudenza vigente perché andava a creare una casistica di quei casi cosiddetti di vulnerabilità di un soggetto proveniente da un Paese terzo che si riconosce essere un soggetto vulnerabile, ossia un soggetto che non avrebbe le stesse condizioni di vita nel proprio Paese di origine laddove avrebbe delle condizioni di vita del tutto precarie e di indigenza. Ad esempio, casi di estrema povertà in zone del Bangladesh che erano state soggette ad alluvioni per cui un componente della famiglia era partito per tentare di trovare delle condizioni di vita migliori e aiutare i familiari che erano rimasti nel Paese di origine. Questa poteva essere una casistica abbastanza diffusa che non rientrava né nell’asilo politico né nella protezione sussidiaria, ma che creava quella situazione di vulnerabilità per cui si poneva il problema che rimandare un soggetto così precario e vulnerabile nel Paese di origine avrebbe comportato probabilmente un aggravamento delle sue condizioni di vita e di tutto il nucleo familiare. In altri casi la questione poteva essere il rifiuto dello svolgimento del servizio di leva in Paesi dove era ritenuto obbligatorio e che avrebbe potuto comportare l’arresto della persona qualora fosse tornata nel Paese di origine. Quindi, c’erano delle casistiche che erano state tipizzate.
Tutto questo era venuto meno con il decreto Salvini, ma con il decreto Lamorgese non solo riesce fuori la protezione speciale ancora più simile e forte rispetto alla protezione umanitaria, ma addirittura viene normata quella che prima era stata un’elaborazione giurisprudenziale, ossia viene data un’importanza fondamentale alla vita familiare e privata del cittadino. Questa norma è importante perché da un riconoscimento nel diritto interno dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che fa esplicito riferimento alla vita familiare e privata del soggetto proveniente da un Paese terzo. In secondo luogo, perché non lascia più mano ai giudici per decidere rispetto a questa casistica, ma la va a tipizzare direttamente. L’introduzione dell’articolo 19 1.1 del Testo Unico immigrazione fa fondamentalmente questo. Va a normare una comparazione fra i due Stati, quello di provenienza e quello di arrivo facendo un confronto fra le due specifiche situazioni. Da quel momento in poi, le elaborazioni giurisprudenziali sono basate sul concetto che se lo straniero in questo Paese ha dato prova di una sua integrazione lavorativa e socio-sanitaria, ed è quindi è un soggetto in grado di avere un’abitazione, che ha un lavoro e che può aiutare la propria famiglia nel Paese di origine. Insomma, che è in grado essere indipendente. Per cui, qualora dovesse essere costretto a tornare nel suo Paese di origine, la sua situazione peggiorerebbe in modo importante. Allora, ha diritto ad ottenere una protezione cosiddetta speciale.
A seguito del decreto Lamorgese anche la procedura per l’ottenimento dello status è stato rivoluzionato. Sono state standardizzate delle richieste che il richiedente protezione speciale poteva inoltrare direttamente alla questura, presentandosi e compilando dei moduli, bypassando il colloquio con la commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato politico. Chi riteneva di non avere delle motivazioni relative al riconoscimento di uno status di protezione internazionale, ma si sarebbe limitato a chiedere una protezione umanitaria, va direttamente in questura a chiedere la protezione speciale. La commissione territoriale è tenuta a dare un suo parere, ma limitatamente a quel tipo di richiesta. Si presenta la documentazione che attesta la permanenza nel Paese con tutta una serie di informazioni integrative, e poi arriva la risposta direttamente dalla questura. Questo è un cambiamento di fondamentale importanza perché va a scindere i due percorsi che invece fino ad allora erano stati indissolubilmente legati in maniera inopportuna. Ha aperto uno spiraglio a tutta una serie di situazioni di casistiche di persone che erano in Italia, che lavoravano, che avevano una loro vita familiare stabile da diversi anni, pur non essendo mai riusciti ad ottenere un permesso di soggiorno o avendolo perso a volte per motivi non sempre comprensibili sul piano della logica.
Teniamo conto che questo decreto entra in vigore nel 2020, ossia in anno molto particolare, in cui a seguito del CoVid-19 le situazioni si erano molto aggravate per tutta la popolazione e soprattutto per chi non era in regola e quindi non aveva i documenti per poter accedere a tutta una serie di servizi.
Arriviamo purtroppo al decreto legge numero 20 del 2023, il cosiddetto decreto Cutro, che va ad abolire di sana pianta tutto quello che c’era stato con il decreto Lamorgese. Ossia, viene abolito l’articolo 19 1.1, relativo appunto alla vita familiare e privata del cittadino straniero, riportandoci indietro ad un’idea di protezione speciale a quello che era stata precedentemente del decreto 113 del 2018. Quindi, si ritorna ad un’idea di protezione residuale non più legata alla vita familiare e privata del richiedente. Questo è lo stato dell’arte attuale.
Esiste tutto un movimento di avvocatura e di organizzazioni che sta tentando di controdedurre e valutare i rilievi di incostituzionalità di questa nuova normativa, così come lo si era fatto con il decreto Salvini, e che sta proponendo le proprie istanze. L’argomento che maggiormente convince `che ciò che è stato espulso dalla normativa italiana non può essere espulso se parliamo di normativa internazionale. Quindi, che l’articolo 8 CEDU possa trovare comunque un’applicazione all’interno del diritto italiano senza far ricorso per forza ad una normativa specifica.
La maggior parte dei ricorsi che per ora sono stati instaurati, o riguardano situazioni antecedenti all’entrata in vigore – il 10 marzo 2023 – del decreto Cutro, oppure non sono ancora arrivati a decisione. La maggior parte dei ricorsi di cui mi sto occupando in questo momento hanno ancora un’applicazione di disciplina previgente, quindi legata al decreto Lamorgese. Il nuovo decreto non ha un effetto retroattivo. L’indirizzo, anche sentendo tanti colleghi, è quello di provare a salvare la sostanza della protezione speciale così come era stata elaborata nel decreto Lamorgese proprio tramite il ricorso all’ausilio dell’articolo 8 CEDU e all’articolo 10 della Costituzione che fa salvi gli accordi internazionali. La situazione è tutta in divenire.
Da osservatore noto che i decreti repressivi non risolvono il problema, se questo può essere inquadrato come un problema, ma semmai ne accentuano le criticità in quanto creano maggiore illegalità. Le persone rischiano di finire per essere assoldate dalle organizzazioni criminali. Si rischiano di creare una serie di criticità e vulnerabilità di tipo socio-sanitario e di reclutamento da parte della criminalità, a fronte di rimpatri che sono assolutamente insignificanti rispetto alle persone che sono entrate. Più persone si riescono a mettere in regola e più si ha la possibilità di avere un controllo e di poter gestire una situazione. Meno persone di mettono in regola e più la situazione sfugge di mano. I numeri spesso nascondono questa realtà, ma è palese per tutte le organizzazioni che hanno a che fare con soggetti provenienti da Paesi terzi. Laddove c’è il titolo di soggiorno le problematiche possono essere affrontare e risolte. Laddove non c’è aumenta il sommerso di tutta una vita.

AS: Ti ringrazio. Si tratta di una questione piuttosto complessa. Tutta questa dinamica di cambiamenti normativi, avanti e indietro, che tu hai descritto, ha creato uno sconcerto sia per gli addetti ai lavori sia per gli italiani. Il percorso giurisprudenziale richiede dei tempi per capire come applicare le norme, bisogna costruire il precedente…

MG: Costruire dei percorsi. Questo lo si fa nel corso di anni e spesso sulla pelle delle persone…

AS: Perché poi l’altro aspetto è proprio questo. Che ci sono persone reali, vive che vengono stritolate da questo sistema illogico e incoerente. Con più repressione le persone diventano sommerse, non si riesce a saperne il numero o dove vivano. Una situazione che rischia di diventare esplosiva dal punto di vista della legalità. Ci sono governi, come quello attuale, che partono del presupposto che l’Italia sia invasa da questo flusso esterno di migranti. Ma se guardiamo ai numeri questi sono sempre molto relativi. L’Italia è un Paese che sta perdendo popolazione: solo 400mila sono stati i nati in Italia l’anno scorso. È un Paese che invecchia e che ha bisogno di persone specie se giovani. Ci sono tanti settori lavorativi che sono completamente scoperti, dove manca la forza lavoro. Non solo lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma anche altri come nel settore sanitario, dai medici agli infermieri.

MG: Il discorso diventa più complesso perché a livello sociale non parliamo più solo di numeri ma di persone. Inoltre, noi non dovremmo tanto discutere se il fenomeno va avanti o no, perché il fenomeno va avanti a prescindere da quella che è la volontà legislativa. Semmai possiamo decidere in che maniera subirla o cercare di gestirla in maniera più corretta. Questo lo si fa se ci sono delle infrastrutture in grado di riuscire a fare un’accoglienza che non è solo una prima accoglienza, ma che è un’accoglienza integrazione. Deve essere fatto questo passaggio in più che noi abbiamo una difficoltà strutturale a fare. Un mondo della scuola nel campo dell’istruzione e della formazione professionale che ha delle mancanze. Hanno difficoltà coloro che nascono in questo Paese, figuriamoci quelle che incontrano coloro che vengono da Paesi terzi. Attenzione perché quando i governi parlano di pugno di ferro, di linea dura, fanno riferimento solo ai numeri, ma non anche alle persone a e alle situazioni. Quando una persona non è più nel radar della legalità, probabilmente è un numero in meno, ma noi non dobbiamo essere contenti di questo, perché la persona continua ad esistere e si muove in ambito sommerso di cui noi spesso non abbiamo contezza. È in quel momento che si crea il problema, più che prima. Prima c’è una difficoltà che si può risolvere, poi, quando si diventa invisibili la situazione diventa un vero problema, con situazioni che possono diventare difficilmente controllabili.

 

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